Una fallace (e ahimè) diffusa abitudine del ricorrente in cassazione: dedurre come violazione di norme di legge, l’erronea ricognizione dei fatti che, sulla base delle prove raccolte, ha operato il giudice di merito.

Ricorso per Cassazione

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Una fallace (e ahimè) diffusa abitudine del ricorrente in cassazione: dedurre come violazione di norme di legge, l’erronea ricognizione dei fatti che, sulla base delle prove raccolte, ha operato il giudice di merito.
La valutazione delle prove raccolte, anche nel caso in cui si tratti di presunzioni (Cass. n. 1234/2019), costituisce un’attività demandata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni, in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale, non sono sindacabili in cassazione, se non per il vizio (art. 360 c.p.c., n. 5) dell’avere del tutto omesso, in sede di accertamento della fattispecie concreta, l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia.
Ne consegue che non può rientrare nell’ambito del predetto n. 5 qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 116 c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio, tramite la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova.
La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni, in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale, non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176/2017, in motiv.ne).
Risulta di immediata percezione come, sia la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, che la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgano apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale rimane libero di trarre il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza che egli sia tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori pretermessi, quand’anche allegati dalle parti (v. Cass. n. 20802 del 2011).
Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (e salvo, ovviamente, che non si verta in ambito di prova legale) il giudice di merito ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento sarà quindi insindacabile in Cassazione, a patto sia logico e coerente il valore poziore attribuito, anche implicitamente, agli elementi utilizzati (Cass. n. 11176/2017).
Tali essendo i poteri di apprezzamento del giudice di merito, risulterà poi conseguenziale la declaratoria d’inammissibilità di quel ricorso per cassazione, volto a censurare il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Cass. n. 21187/2019).
Il difensore, quindi, dovrà, nel redigere il ricorso, tener bene a mente che il compito della Corte di Cassazione, non è quello di condividere, o meno, la ricostruzione dei fatti illustrata nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito, bensì quello di controllare se i giudici di merito abbiano reso edotti i litiganti delle ragioni della loro decisione, e se il loro ragionamento probatorio, reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, non sia esondato dall’alveo del ragionevole e del plausibile.
E ulteriormente svolgendo: la norma contenuta nell’art. 2697 c.c. potrà quindi ritenersi violata, soltanto laddove il giudice abbia attribuito l’onere probatorio ad una parte diversa da quella che, in applicazione della predetta norma, ne sarebbe dovuta essere gravata.
Detto altrimenti: potrà essere denunciata la violazione dell’art. 2697 cod. Civ. (in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.), soltanto laddove il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne doveva essere onerata, secondo le regole di scomposizione della fattispecie, basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
Quindi, non potrà ritenersi vulnerato l’art. 2697 cod. civ., ove il giudice abbia ritenuto (in ipotesi: erroneamente) assolto (o non assolto) tale onere, ad opera della parte che ne era gravata ex art. 2697 c.c.: in tal caso, il difensore potrà dolersene solo entro gli angusti limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. n. 17313 del 2020), e giammai veicolando la censura come violazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.
Ovviamente, vi è anche spazio per dedurre la violazione dell’art. 115, c.p.c. (in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.) ma ciò soltanto nell’evenienza in cui il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti.
La violazione dell’art. 115 c.p.c. sussisterà, in particolare, se il giudice del merito abbia giudicato, o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, ossia giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non è riscontrabile (e sempre qui si ritorna) nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti, attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività assentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., rubricato, giustappunto, “valutazione delle prove” (Cass. S.U. n. 16598/2016).

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