Deduzione in cassazione di doglianze afferenti il nesso causale: verifica di correttezza dell’attività ermeneutica e/o della sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa

Ricorso per Cassazione

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Deduzione in cassazione di doglianze afferenti il nesso causale: verifica di correttezza dell’attività ermeneutica e/o della sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa
Ai fini di una corretta veicolazione, atta ad evitare una pronunzia di inammissibilità, è preliminarmente necessario distinguere se ci dolga: a) di un errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento; b) ovvero di un suo errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata.
Nel primo caso, la censura deve essere sussunta sotto l’egida dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, mentre, nella seconda ipotesi, vertendosi in ambito di valutazione di fatto, occorre tener presente come essa ontologicamente sfugga al sindacato di legittimità, ove adeguatamente motivata (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439).
Tornando all’ipotesi sub a), vale la pena di osservare come la Cassazione abbia senz’altro la possibilità di scrutinare la corretta applicazione della regola causale, atteso che nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 3), il vizio denunciabile è individuato sia nella violazione, che nella falsa applicazione della norma di diritto.
In altri termini, in ambito di 360, n. 3, c.p.c., il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica di correttezza dell’attività ermeneutica, diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma involge altresì la sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa.
Pertanto, la valutazione così effettuata dal giudice di merito e la relativa motivazione, non inerendo più all’attività di ricostruzione della “quaestio facti” e, dunque, all’apprezzamento dei fatti storici in funzione di essa, bensì all’attività di qualificazione “in iure” della “quaestio” per come ricostruita, risulta espressione di un vero e proprio giudizio normativo”.
Quindi, trattandosi di un giudizio normativo, il relativo ragionamento operato dal giudice di merito, connotandosi come ragionamento giuridico, può e deve essere sindacato dalla Corte di Cassazione, nell’ambito del paradigma del n. 3) dell’art. 360 c.p.c. (Cass. civ., Sez. 3, n. 21772 del 2019).
Costituisce infatti principio ricevuto, quello per cui “il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma è esteso alla sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell’ipotesi normativa” (Cass. Sez. Un., 18.1.2001, n. 5).
L’attività di riconduzione della fattispecie concreta sotto la pertinente fattispecie giuridica astratta è definita “sussunzione”: ebbene, la “falsa applicazione” di cui fa menzione, accanto alla “violazione” il n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., sottende, per l’appunto, il c.d. “vizio di sussunzione”.
Questo vizio è riscontrabile quando il giudice di merito, dopo avere individuato e ricostruito – sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dalle parti e comunque all’esito dello svolgimento dell’istruzione cui ha proceduto – “la “quaestio facti”, ossia i termini ed il modo di essere della c.d. fattispecie concreta dedotta in giudizio, passa poi a ricondurre quest’ultima ad una data fattispecie giuridica astratta, anzichè ad un’altra, cui sarebbe viceversa riconducibile; ovvero, ancora, si rifiuta di ricondurla ad una data fattispecie giuridica astratta, cui sarebbe stata invece riconducibile o ad una qualsiasi altra fattispecie giuridica astratta, quando, in realtà, ve ne sarebbe stata una cui sarebbe potuta essere ricondotta (in tali ultime ipotesi, si parla, più correttamente, di “vizio di rifiuto di sussunzione”)

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