La locuzione giurisprudenziale della “ minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno ”, quale bussola per accertare la possibilità di denunciare in cassazione, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., la violazione, da parte del giudice di merito, del (l’asserito) giudicato interno.
Il difensore che intenda veicolare tale censura deve aver ben presente come siano suscettibili di impugnazione autonoma, ovvero, specularmente, di acquiescenza tacita qualificata, cd. impropria, ex art. 329, cpv, c.p.c., solo quelle parti di sentenza traducentisi in questioni processuali o sostanziali dotate di una propria autonomia ed indipendenza, ossia tali da potersene ipotizzare la decisione anche in un giudizio separato o, meglio ancora, tali che esse possano sussistere venendo meno le altre che le seguono.
Costituisce infatti principio ricevuto, presso i Giudici di Piazza Cavour, quello per cui il giudicato interno non si formi su ogni questione, di fatto o di diritto, su cui il giudice abbia espresso il proprio convincimento, bensì solo su quelle statuizioni dotate di una propria e compiuta individualità.
Ne consegue che ne restano escluse, sia le mere argomentazioni, sia le esposizioni di un’astratta tesi giuridica, sia, infine, i necessari presupposti logico-giuridici del singolo capo di pronuncia che sia stato impugnato.
Vi è un ulteriore corollario: l’impugnazione della pronuncia di merito coinvolge necessariamente anche il ragionamento giuridico che la sorregge, lasciando mani libere al giudice dell’impugnazione, che potrà quindi confermare la decisione, ancorandola anche a una diversa motivazione in diritto.
Infatti, è indirizzo monocorde quello giusta il quale la formazione della cosa giudicata, in senso processuale, per mancata impugnazione di un determinato capo della sentenza investita dall’impugnazione, può verificarsi solo in relazione ai capi della stessa pronuncia completamente autonomi, poichè concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dei motivi di gravame, per l’essere fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi valenza precettiva, anche nell’ipotesi che gli altri dovessero venir meno: non può invece verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza, che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove quest’ultima sia oggetto del gravame.
La bussola, in tale prospettiva, è costituita dalla locuzione giurisprudenziale “ minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno”, la quale individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia, in buona sostanza, la statuizione che afferma l’esistenza di un fatto, sussumibile sotto una norma, cui il giudice ricolleghi un dato effetto giuridico (ex plurimis, in motiv.ne, Cass. sez. II Civile, n. 8645/20)
Ne deriva che, sebbene ciascun elemento di questa sequenza possa essere oggetto di un apposito motivo di impugnazione, quest’ultima, anche ove fosse riferita ad uno solo di essi, riapre la cognizione del giudice dell’impugnazione sull’intera statuizione.
La conseguenza processuale fondamentale scaturente dai dianzi predicati principi, cui mette conto dedicare la massima attenzione, allorchè si valuti di denunziare la violazione del giudicato interno, è la seguente: affinché il giudice possa ricostruire i fatti in maniera autonoma, rispetto a quanto prospettato dalle parti, ovvero procedere una diversa loro qualificazione giuridica, non occorre un’apposita censura sull’esistenza di un fatto e sulla sua sussumibilità sotto una data norma, ma è sufficiente che sia censurato anche solo l’effetto finale che il giudice a quo ne abbia desunto.
Detto altrimenti: quantunque ciascun elemento della predetta sequenza possa essere oggetto di un singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi, riapre la cognizione sull’intera statuizione.
Quindi, ad esempio, se con l’impugnazione si contesta l’idoneità di un fatto a produrre l’effetto ad esso ricollegato dal giudice di primo grado, è devoluto al giudice di appello anche il potere di rilevare d’ufficio la carenza di prova in ordine alle componenti del fatto, senza che l’appellato possa poi lamentare in cassazione, l’esistenza dell’intervenuto giudicato interno sul punto