L’exacta diligentia, cui deve essere informata (art. 1176, comma 2, cod. civ.) una prestazione professionale altamente qualificata, come quella dell’avvocato cassazionista, non tollera l’abnorme violazione delle regole di redazione del ricorso per cassazione

Ricorso per Cassazione

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L’exacta diligentia, cui deve essere informata (art. 1176, comma 2, cod. civ.)  una prestazione professionale altamente qualificata, come quella dell’avvocato cassazionista, non tollera l’abnorme violazione delle regole di redazione del ricorso per cassazione.   

Un avvocato che ritenga di essere in grado di redigere un ricorso per cassazione, non può ignorare che i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, debbano essere assolti necessariamente tramite il ricorso e non possano essere ricavati da altri atti
Egli, quindi, dovrà specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza.
Infatti, il principio di autosufficienza, lungi dall’essere un totem fine a se stesso, è volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell’impugnazione: ne deriva l’onere, in carico al difensore, di rivestire il ricorso di un contenuto funzionale alla piena valutazione di detti motivi, in base alla sua sola lettura.
Solo in tal modo la Corte di cassazione (che non è tenuta a ricercare gli atti o a stabilire essa stessa se ed in quali parti rilevino) potrà verificare se quanto lo stesso affermi, trovi effettivo riscontro, anche sulla base degli atti o documenti prodotti sui quali il ricorso si fonda, la cui testuale riproduzione, in tutto o in parte, è invece richiesta quando la sentenza è censurata per non averne tenuto conto” (ex multis, Cass., Sez. 5, n. 24340 del 04/10/2018).
Quindi una conclamata mortificazione dell’art. 366 c.p.c., sostanziandosi in un errore grossolano  di regole di redazione dell’atto introduttivo, che non possono essere ignorate da un avvocato cassazionista, legittima anche l’applicazione, nei confronti della parte da lui (maldestramente) rappresentata, dell’art. 96, comma 3, c.p.c.
In buona sostanza, la macroscopica violazione dei canoni di redazione codificati dall’art. 366 c.p.c. comma 1, nn. 3, 4 e 6, rende il ricorso così erroneo, da essere incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr.  art. 6 C edu) e, dall’altra, deve tener conto del principio, costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo ( art. 111 Cost.).
E ciò anche a voler tacere come l’esigenza della “ ragionevole durata” implichi la necessità di creare strumenti dissuasivi, rispetto ad azioni meramente dilatorie e defatigatorie: allora, in un simile contesto, è addirittura ovvio che i giudici di cassazioni intendano valorizzare la sanzionabilità (ex art. 96, comma 3, c.p.c) dell’abuso dello strumento giudiziario ( Cass.  civ.,  n. 10177/ 2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione ( Cass.  civ.  Sez. U n., n.  12310/2015): donde la necessità di un primigenio filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – affidato alla prudenza del ceto forense (v. blog, articolo del 12 luglio 2019), correlata al principio di responsabilità delle parti ( Cass. civ.,  n.  10327/2018).
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